Il presbitero: ministro del mistero Per la nuova ed eterna Alleanza

Omelia, Basilica Cattedrale, Messa Crismale, 8 aprile 2009, Mercoledì Santo

1. Il mistero, unica ricchezza del nostro ministero. Anche se con altre parole, ma con il suo ormai ben noto linguaggio chiaro e diretto, lo ha detto il Papa nell’annunciare l’«anno sacerdotale» che inizierà a fine giugno. Ecco le sue testuali parole: «Dio è la sola ricchezza che, in definitiva, gli uomini desiderano trovare in un sacerdote». Quasi il memento, quello del Papa, di un condottiero ai suoi uomini, mentre la battaglia si fa aspra e più dura: ricordatevi, dice, che in voi la gente cerca Dio. Monito forte e radicalmente esigente, ma quasi, si direbbe, angolato nella prospettiva dei fedeli, immedesimato nell’animo di chi entra, o vorrebbe entrare, in una chiesa, o si inginocchia in un confessionale. La gente non cerca in noi sapienza raffinata o umana compagnia, e nemmeno solo opere di carità. Vogliono intravedere nel nostro volto il volto di Lui, nulla di meno.

Non è a caso che l’imminente anno sacerdotale nasca nel solco della memoria del curato d’Ars. Jean-Marie Vianney era venuto al mondo alla vigilia della rivoluzione francese; aveva ricevuto la comunione in un granaio, in clandestinità. Non era un seminarista brillante, faticava col latino, e non solo. Appena ordinato, venne mandato a fare il curato in un paesino sperduto, di 230 anime, dove, a detta del suo vescovo, a Dio si pensava piuttosto poco. Ben presto si trovò come travolto da un turbine di decine di migliaia di pellegrini l’anno. Dall’una di notte si mettevano in coda, aspettando. E lui, dieci, quindici ore al giorno, imprigionato in confessionale, si consumava come una candela, ben consapevole che quella gente gli domandava la carità di un’altra misericordia. Nell’ora quotidiana di catechismo al popolo, ripeteva additando il tabernacolo: “Lui è qui”. E ne era così visibilmente certo e raggiante che la gente non chiedeva altro. Bastava. Era, davvero, la sola ricchezza che cercavano in quel povero prete.

2. Miei cari Fratelli nel sacerdozio, oggi la nostra situazione non è meno delicata e drammatica.

Il medioevo aveva tentato una sacralizzazione del mondano; il nostro tempo cerca di realizzare una mondanizzazione del sacro. Nell’occidente obeso e depresso, che sembra verificare alla lettera il significato della sua denominazione – occidente = “terra del tramonto” – si parla di tramonto del sacro, di eclissi del mistero: questo appare l’estremo esito della secolarizzazione, la sua consumazione nel secolarismo. Di fatto però la “voglia di mistero” non solo non è venuta meno, ma si va facendo sempre più acuta, per non dire eccitata e febbrile. Il revival religioso è una realtà impressionante. Gli anni ’70 avevano avviato l’inizio della fine della modernità pronosticando, per l’ultimo scorcio del millennio, la derubricazione della voce “Dio” dal lessico corrente. Come non ricordare la celebre striscia di Linus: «Dio è morto, Marx è in fin di vita, e neanch’io mi sento un gran che bene»? Di fatto all’inizio del terzo millennio non solo non si è ancora riusciti a iscrivere Dio nel registro dei defunti, ma sembra che sia in espansione il fenomeno di una certa “risurrezione” del religioso, anche se spesso in forme selvagge e nella versione low cost del “fai-da-te”. Del resto, uno psicanalista di grido lo aveva predetto, proprio negli anni ‘70: «La religione trionferà non solo sulla psicanalisi, ma su molte altre cose» (J. Lacan, in una conferenza stampa, a Roma, nel 1974).

Oggi la nostalgia del mistero si intercetta non solo nel circondario del sagrato, ma si capta anche fuori del perimetro della comunità ecclesiale; in fondo si ripropone come forma postmoderna della nostalgia del cuore umano.

3. In questo anno paolino può essere utile tornare alla scuola dell’Apostolo e frequentare di nuovo quella sorta di corso fondamentale sulla vita di ogni apostolo-pastore, con la lezione numero 1, dal titolo: “identificazione tra mistero e ministero”.

Ma cosa intende Paolo per “mistero”? La domanda è posta male: il mistero non è una cosa, un “che”, ma un “chi”. Non è un “totalmente Altro” nebuloso, diffuso e diluito, senza volto e senza nome. «Il mistero è Gesù Cristo stesso» (PdV 24). Questo mistero – è sempre la PdV – «chiede di essere inserito nella vita vissuta del presbitero» (ivi): nei suoi pensieri, nella sua parola, nella sua carne, nel suo servizio, nei suoi progetti.

Ogni volta che Paolo ne parla, non fa altro che afferrare le questioni del ministero e ricollocarle continuamente nell’orizzonte del mistero. Così, quando deve risalire alla sorgente del ministero, la ritrova nel mistero dell’iniziativa preveniente e gratuita di Dio: Paolo infatti si accredita come investito dal «ministero per la misericordia che ci è stata usata» (2Cor 4,1). Così pure quando deve evidenziare il contenuto del ministero, lo riscontra nella riconciliazione: «Tutto questo vene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2Cor 5,18). In buona sostanza, per Paolo, apostoli e pastori sono “ministri della nuova alleanza” (2Cor 3,6). Il concetto di alleanza implica quello di mediatore. Gesù, vero uomo come noi, Figlio di Dio e vero Dio come il Padre, è nella sua stessa persona il mediatore perfetto e definitivo tra il Padre e l’umanità. Egli porta a piena attuazione la sua mediazione sacerdotale attraverso l’offerta di se stesso sulla croce (cfr PdV 13). Con quell’unico sacrificio il sommo ed eterno Sacerdote comunica a tutti i suoi discepoli la dignità e la missione di sacerdoti della nuova ed eterna alleanza. E’ tutto il popolo cristiano ad essere costituito come «sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 2,5).

Nel regime della nuova alleanza tutti i credenti sono elevati alla dignità sacerdotale. Il NT mostra chiaramente che, grazie al sacrificio di Cristo, le barriere sono annullate fra il popolo e Dio. Tutti sono chiamati ad avvicinarsi a Dio, senza paura. Tutti i credenti hanno questo diritto che anticamente era riservato al sommo sacerdote: «Giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 5,1). Ma poiché nessun cristiano è capace di attuare il suo sacerdozio da solo, ed è sempre necessaria – per usare una immagine informatica – la “connessione con il server” che è Cristo, questa è appunto la funzione del sacerdozio ordinato: essere il sacramento della mediazione di Cristo, o – che è lo stesso – manifestare la presenza di lui, in quanto Mediatore. Cristo infatti è “mediatore di un’alleanza nuova” (Ebr 9,15), e a sua volta costituisce dei “ministri di una nuova alleanza” (2Cor 3,6), “a servizio del sacerdozio universale” (PdV 14).

Pertanto ecco la carta d’identità dei presbiteri, offertaci dalla PdV:


«I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ri-presentazione sacramentale di Gesù Cristo capo e pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col battesimo, la penitenza e l’eucaristia, ne esercitano l’amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge, che raccolgono nell’unità e conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito” (PdV 15).


«In nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo: in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio», scrive Paolo ai cristiani di Corinto (2Cor 5,20). Ambasciatori di Cristo: si radica qui la visione del sacerdote come colui che agisce in persona Christi Pastoris (a nome e nella persona di Cristo Pastore).

S. Paolo ha esercitato questo ministero con una abnegazione che ha dell’incredibile: non ha solo agito – ma ha vissuto – in persona Christi. Chi lo incontrava, sapeva di vedere in lui un altro Gesù, in copia conforme all’originale. Egli poteva dire – e nei suoi scritti una espressione del genere ricorre ben sette volte – «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).  Riassumendo la sua vita, di fronte agli anziani (“presbiteri”) di Efeso, poteva affermare:

«Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che (vi) poteva essere utile (…). Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù» (At 20,18-24).

4. Cari Confratelli, mi domando ora con voi: un ideale così esigente quanto viene da noi non solo predicato, ma anche coerentemente praticato? Da qualche settimana è in circolazione una biografia di Don Antonio Marcaccini, dal titolo E prèt ad purgatorie. Don Antonio è stato un umile prete di campagna, della nostra Chiesa riminese, parroco prima a Farneto e poi a Montetauro. E’ morto a quarantanove anni e mezzo, nel 1961. Della sua vita si ricorda un particolare drammatico. Era il 3 settembre 1944: in una casa vicina alla chiesa soldati tedeschi, ormai prossimi alla disfatta, rastrellano sette giovani del luogo e l’ufficiale delle SS minaccia di sterminarli per rappresaglia, perché uno di loro è fuggito. Don Antonio tenta una serrata trattativa con l’ufficiale, che pure si dichiara cattolico. Tutto sembra inutile, nonostante che il parroco giuri sul vangelo che a Farneto non ci sono partigiani, e che solo la paura e non altri motivi hanno spinto il giovane a fuggire. L’ufficiale è irremovibile. A questo punto non rimane a don Antonio che la conseguenza estrema della sua missione di giovane parroco – allora appena trentatreenne – e, togliendosi la veste talare, grida: «Se non crede alla mia parola di prete, allora fucili anche me». Il  gesto eroico ottiene la liberazione dei sette ostaggi: un vero miracolo. Chi ha conosciuto Don Marcaccini, può testimoniare che non si è trattato di un gesto isolato: tutta la sua breve esistenza non è stata un vivere per sé, ma un continuo riconsegnare la vita a Cristo per la salvezza delle anime. Sulla sua tomba è scritto: “Prete di Dio e del popolo”.

Sacerdoti riminesi come don Marcaccini, Mons. Pasolini, come Don Pippo, Don Meo, Don Torri, Don Bertozzi, don Italo Urbinati, fino all’indimenticabile Don Oreste e a tanti tanti altri, non hanno scritto saggi o fatto prediche sul sacerdote e sul suo ministero, ma si sono letteralmente “strapazzati” per il bene delle anime. Preti di questa buona lega continuano a segnarci la strada. Che la loro memoria sia in benedizione!

Vorrei dirvi ancora tante cose, ma non intendo affaticarvi oltre. Riassumo pensieri e sentimenti che mi porto nel cuore per voi, in questo saluto di Paolo ai Filippesi:

«Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono sicuro che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù» (1,3-6).