Il dono dell’iper-dono

Omelia tenuta dal Vescovo nella solennità del Patrono

Il martirio è il “caso serio” del cristianesimo. Il martire non è né un gladiatore che uccide per non farsi uccidere, né un kamikaze che, al contrario, si uccide per uccidere. Il martire, invece, è un cristiano che si lascia uccidere per dare testimonianza della sua fedeltà a Gesù Cristo, fino al dono supremo della vita. Così ha fatto Gesù, il primo martire in assoluto, che ha invocato dal Padre il perdono per i suoi crocifissori. Così ha fatto Stefano, il cosiddetto “protomartire”, che ha invocato dal Signore Gesù il perdono per i suoi persecutori. Così non può non aver fatto san Gaudenzo. Certo: del suo martirio non ci sono noti i contorni precisi, né ci sono state riportate le sue ultimissime parole. Non possiamo però immaginare il nostro santo patrono avviarsi verso il patibolo con passo spavaldo e fiato rovente, maledicendo e imprecando, ma piuttosto pregando e perdonando.

1. Fratelli e Sorelle, mi pare di cogliere dalla celebrazione odierna il pressante invito a soffermarci sul perdono, infallibile test della fede cristiana. Con la profezia del perdono, firmata a sangue, è come se san Gaudenzo stasera ci dicesse: “Perdono, dunque… sono. Perdono, dunque sono… cristiano”. Per entrare nella logica evangelica dell’amore cristiano spinto fino all’amore per i nemici, dobbiamo dire due no ad altrettanti cortocircuiti del perdono. Il primo è il no al vittimismo, quel sentimento cupo e amaro che foraggia il desiderio di vendetta. La convinzione di essere stati vittime di una violenza totalmente ingiustificata e l’esigenza di ristabilire la giustizia reclamando il risarcimento per il torto subito trascinano con sé il rischio di scivolare da vittime a vittimisti, da persone bisognose di giustizia “giusta” ad accaniti giustizieri che bramano una giustizia “giustiziera”, la giustizia fai-da-te, qual è la vendetta. Il cortocircuito viene creato dall’illusione: “Se mi vendico, starò meglio”. Si tratta di un pregiudizio assai frequente in coloro che decidono di rifiutare il sentiero ardito del perdono, ritenendolo – come notava Nietzsche – una rinuncia alla propria dignità, un’abdicazione ai propri legittimi diritti. Ma così di fatto si affonda nelle sabbie mobili di una sfibrante ruminazione interiore che avvelena l’anima della persona. E la esaspera fino allo sfinimento. Così non si riesce più a ritrovare quel filo di luce e quel briciolo di pace senza di cui non è possibile vivere, ma solo sopravvivere. Il “regolamento di conti” che la vendetta promette è spesso più apparente che reale, poiché allo sguardo astioso del vittimista non c’è alcun atto di rivalsa adeguato a compensare l’ingiustizia subita, pareggiando i conti.

Un secondo no va detto al frutto avvelenato del vittimismo, qual è il risentimento. Il risentimento nasce da un conflitto profondo, riproponendo il copione della coazione a ripetere: quanto più viene reiterato, tanto più aumenta il malessere, e cosi virtualmente all’infinito. Il risentimento è come cercare di premere l’acceleratore di un’auto incagliata nel fango. Quanto più si accelera, tanto più l’auto affonda nel fango e meno si muove. Non c’è via di uscita. Non c’è via di uscita tranne quella del perdono.

2. Ma perché perdonare? Perdonare si deve perché è l’unica via percorribile per spezzare la spirale del male. La sete di rivalsa tende a far smarrire il senso della misura, aggiungendo ingiustizia a ingiustizia. In effetti il perdono pacifica e costruisce, la sete di rivalsa affligge e demolisce: distrugge sè e gli altri. La vendetta non reca mai la soddisfazione sperata, ma produce ulteriore sofferenza e dolore. In questo modo, infatti, non si raggiunge né sollievo né giustizia, ma solo il rimorso e la penosa sensazione di non essere poi stati così diversi da chi si è voluto punire.

Perdonare si deve perché il perdono non è contro, ma oltre la giustizia. In realtà perdono e giustizia si collocano su livelli distinti: il primo a livello morale, poiché riguarda i sentimenti, le emozioni e le valutazioni interiori. Mentre la giustizia si colloca a livello giuridico e istituzionale. Pertanto è possibile ottenere giustizia senza perdono, e perdono senza giustizia. Ma occorre aggiungere con san Giovanni Paolo II che “non c’è giustizia senza perdono”. Perdonare si deve perché il male non si può vincere con altro male, ma solo con il bene. Più che tante parole, valga la testimonianza di un terrorista pentito:

Mi sono accorto che una volta innescata la spirale del perdono, dell’amore, del bene gratuito, nessuno la ferma più: diventa un contagio, una luce che si comunica da uno sguardo all’altro, una reazione a catena. Questo è il miracolo, di cui oggi sono testimone, in carcere. Io ho questa coscienza nuova: se riuscirò a trasformare la mia vita, questa diventerà un segnale per gli altri e, quando loro faranno altrettanto, questo segnale si propagherà e raggiungerà altri ancora. E questo è meraviglioso.

3. Perdonare si deve, ma si può? Sì si può, per una ragione basilare e imprescindibile: perché Gesù sulla croce ha perdonato tutti, anche noi e ognuno di noi. E quel perdono non è per noi solo un modello sublime da imitare: è anche una grazia da accogliere per riuscire a perdonare. Così Dio rende a noi possibile ciò che per noi non è solo difficile, ma impossibile: trasformare il rancore in compassione, disarmare la vendetta con il perdono. E non dimenticare mai che ci viene condonato l’ingente debito che abbiamo contratto con Dio perché – e a condizione che – noi a nostra volta abbuoniamo il debito infinitamente più modesto dei nostri debitori.

In fondo resta vero che il primo beneficiario del perdono non è il colpevole, ma la vittima che lo ha perdonato. E’ stato detto: “Perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu” (Anonimo).

San Gaudenzo ci aiuti a ricordare che la chiave di quella prigione rimane, fino alla fine, nelle nostre mani.

Rimini, Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2017

+ Francesco Lambiasi