Il battesimo: trasparenza di umanità

Messaggio del Vescovo per la festa di san Gaudenzo

                   C’è una vita più umana di quella cristiana? Noi crediamo che no, non c’è. Certo, la sequela di Gesù domanda una conversione radicale, con tutta una impegnativa sequenza di cambiamenti faticosi e sofferti. Richiede distacchi dolorosi e duri allenamenti. Esige serietà e piena concentrazione. Vuole coerenza, fedeltà collaudata e rodata disciplina, intesa etimologicamente come stile di vita del discepolo. In una parola il vangelo è e resta croce. Ma è anche risurrezione. Perciò è e resta una bella notizia. Anzi, la notizia più sorprendente e appagante. Se accetti di scommettere la vita sul vangelo, perdi uno e guadagni cento. Vendi le tue cianfrusaglie e compri la perla preziosa. Ti privi del tuo magro gruzzoletto per cui hai dovuto sputare sangue e sudore, e così diventi il fortunato proprietario del campo, dove hai scoperto per incanto un tesoro da favola. Sì, quella cristiana è una vita risolta con formula piena, la formula delle “tre b”: è la vita più bella, buona, beata, purché vissuta con umiltà e grato stupore, senza se e senza ma. Una vita praticata da discepoli innamorati, non da portaborse depressi, da facchini stressati, o da mercenari svenduti e perennemente arrabbiati. Ma là dove non si fanno sconti alla radicalità evangelica, il centuplo promesso da Gesù splende in tutta la sua straripante interezza.

1. Io non so, sorelle e fratelli miei carissimi, come sia avvenuta la prima evangelizzazione a Rimini. Mi piace però pensare che quando Gaudenzo vi arrivò, probabilmente qualche scintilla del gran fuoco del vangelo che da circa tre secoli stava incendiando le coste del Mediterraneo, doveva essere già rimbalzata nell’Ariminum del tempo. L’aveva portata un mercante di passaggio? o una nobile patrizia data in sposa a qualche funzionario imperiale? oppure un esperto, rinomato chirurgo venuto qui ad impiantare la sua domus, con tanto di clinica e di studio annesso? Comunque sia, quando – probabilmente sul finire della persecuzione di Diocleziano – Gaudentius sbarcò sul nostro lido o vi arrivò per la Via Aemilia, una sia pur piccola comunità cristiana doveva già essere stata avviata. Ora, non c’è bisogno di affidarsi a fantasie stravaganti per immaginare come il giovane vescovo abbia impostato la sua missio apostolica. Penso che due in particolare siano state le risorse della strategia pastorale da lui adottata: la predicazione e la testimonianza. L’obiettivo di s. Gaudenzo era quello di mostrare che il vangelo è pienezza di umanità. Doveva perciò dimostrare che nessun dio è più umano del Dio cristiano – ecco l’evangelizzazione – e poteva farlo in modo credibile e attraente solo attraverso la testimonianza di laici battezzati, i quali con la loro vita potevano mostrare che la fede cristiana è trasparenza di piena umanità. In una parola Gaudenzo doveva poter rispondere a due domande, che i riminesi pagani e idolatri rivolgevano ai primi cristiani: ma è proprio vero che questa vostra nuova fede risponde ai bisogni profondi dell’uomo? e che questa risposta è più convincente e soddisfacente di quella stoica o di quella epicurea?

Assumiamo questi interrogativi e proviamo a rispondervi, ponendo subito sul tappeto una questione preliminare: di che cosa ha bisogno l’uomo di ieri e di sempre, quello delle palafitte e dei grattacieli, dei graffiti rupestri e degli ipad più sofisticati?

2. L’uomo ha fame di vita, è l’unico animale al mondo che avverte la morte come una ingiustizia odiosa, insopportabile. Gesù non si è dichiarato una sorta di “pronto soccorso”, ma si è autocertificato come la vita, da lui qualificata spesso come eterna, un aggettivo con due significati. Denota la durata della vita. Gesù dona una vita che vince la morte, una vita senza fine, in contrapposizione all’esistenza effimera e caduca che sembra invece essere il nostro irrimediabile destino. E poi l’aggettivo “eterna” denota la qualità della vita: dono di Cristo non è una vita qualsiasi, ma la stessa vita di Dio partecipata all’uomo, una vita riuscita e compiuta, in contrapposizione all’esistenza frammentaria e ripetitiva, che continuamente ci delude. Con Cristo la vita non è più, come direbbe Qohelet, un inutile, frustrante girare in tondo. Senza Cristo la vita non è più vita. Senza di lui, certo si può esistere, ma non vivere. Una riga prima dell’incipit del nostro brano evangelico, Gesù afferma perentoriamente: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10):

Ma per vivere, noi abbiamo bisogno di amore. Siamo fatti per sentirci amati e per amare. Come risponde la fede a questo bisogno più vitale dell’aria, dell’acqua, del pane? Non con teorie fredde e astratte, o con vaghe, nebbiose utopie, ma con una storia reale, puntuale e concretissima: la storia di Gesù, nato in Betlemme di Giudea quando ad Ariminum si stava cominciando a innalzare l’arco di Augusto, e crocifisso morto risorto quando, sempre ad Ariminum, si stava finendo di costruire il ponte di Tiberio. Tutte le religioni, poteva dire Gaudenzo e possiamo ripetere anche noi, dicono che l’uomo deve servire Dio, che dovrebbe baciargli i piedi se lui si degnasse di apparirgli, che dovrebbe perfino strisciare pancia a terra per adorarlo, e dovrebbe finanche togliersi il pane di bocca per dimostrargli la sua sottomissione o per ottenere la sua sospirata, salatissima protezione. Ma solo il cristianesimo annuncia un Dio che è sceso dal trono, si è spogliato della sua gloria, si è rivelato, ma come capovolto rispetto al senso comune. E’ venuto in persona tra di noi non a farsi lavare i piedi, ma a lavare i nostri, e ci ha amati fino a farsi crocifiggere per noi. Abbiamo ascoltato poco fa: Gesù è il buon pastore. Per cinque volte nel brano evangelico ricorre il verbo offrire: “Io offro la mia vita“. A lui importano le pecore, tutte, l’una come le novantanove. E’ il pastore innamorato del gregge: offre la vita e soffre da morire fintanto che soffre ogni sua pecora. Non ce la fa a stare bene da solo, con i beati, nei pascoli del cielo, e scende nella nostra valle oscura perché ama passare il suo cielo sulla terra fino a quando non ha messo in salvo ogni pecora del suo gregge. E’ un pastore fanatico della nostra dignità: ci tratta da pecorelle, non da pecoroni.

3. Per poter conoscere l’amore, l’uomo ha bisogno di incontrare la verità. Solo Gesù dice: “Io sono la verità“.Gesù lo può ben dire, perché quello che dice e che fa, la sua stessa persona sono la perfetta trasparenza di Dio, tanto da poter assicurare a Filippo: “Chi vede me, vede il Padre”. (Gv 14,9). In Gesù il Dio invisibile si è fatto palpabile e accessibile, rivelandosi con il volto dell’amore, della solidarietà, del gratuito dono di sé. Presentandosi come la verità, Gesù si mostra come lo specchio in cui l’uomo non solo può scoprire come è fatto Dio, ma anche come siamo fatti noi. Ecco al riguardo un luminoso pensiero di Pascal: “All’infuori di Cristo non sappiamo né che cos’è la nostra vita né che cos’è la nostra morte né che cos’è Dio né che cosa siamo noi”.

Se incontra la verità, all’uomo si spalanca l’orizzonte della libertà. Lo ha detto Gesù: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Lo spazio della libertà – e non la sua negazione – è l’appartenenza all’unico Signore. Chi adora il vero Dio e piega le sue ginocchia davanti a Cristo, è più facilmente in grado di sottrarsi alla schiavitù seducente e soffocante dei molti idoli. Se è vero che la libertà non si realizza nel ripiegamento morboso sul proprio io, ma nel limpido dono di sé, allora si comprende che il fiore della libertà sboccia e cresce sulla terra della giustizia, della solidarietà e della volontaria consegna di sé. E la certezza che la piena realizzazione si trova nel mondo futuro libera l’uomo dall’ansia del possesso, dall’affannosa ricerca del piacere, dall’illusione di trovare pienezza e appagamento in cose che non possono offrirla: condizione, questa, non soltanto per conoscere la libertà, ma per gustare veramente la bellezza delle creature.       

4. Noi abbiamo sete di vita, di amore, di verità, di libertà, di bellezza. In una parola abbiamo fame di senso e di speranza. Ci portiamo in cuore un sogno di felicità e di futuro. A questa sete di Assoluto, a questo bisogno di Infinito, noi cristiani diamo un volto e un nome: il volto di Dio, il nome di Gesù Cristo. Ma in concreto come e da che cosa si distinguono i cristiani nella vita quotidiana come nelle grandi svolte della vita? A questa domanda ha riposto un testo molto antico, la Lettera a Diogneto. Io non so, sorelle e fratelli miei, se san Gaudenzo conoscesse questo testo. Penso però che se fosse vissuto ai nostri giorni, vi si sarebbe ispirato e forse avrebbe risposto così.

“I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per vestito”. Ma si riconoscono. Da che cosa dunque si riconoscono?

I cristiani si riconoscono da come vivono il quotidiano. Abitano case in condomini o in quartieri, come tutti, ma non fanno della casa l’idolo della loro vita. Le loro case si riconoscono dal clima che vi si respira, dalla sobrietà dell’arredo, dalla funzionalità alla famiglia numerosa e all’ospitalità, dalla presenza di segni religiosi, con la Bibbia e il Crocifisso in bella evidenza. I cristiani coltivano buoni rapporti con il vicinato e non mostrano alcuna propensione alle liti di condominio o alle cause civili. Inoltre i cristiani sperimentano, come tutti, che ogni giornata è una corsa contro il tempo. Il lavoro, il traffico, le anticamere, le code prosciugano le riserve della pazienza, azzerano le risorse della gratuità, sclerotizzano l’elasticità nell’affrontare contrattempi e imprevisti. Ma riuscendo a trovare il tempo per la vita di fede, come la preghiera e l’attenzione ai poveri, i cristiani riescono a vivere la fede nel tempo, e affrontando ogni giornata come fosse l’ultima, sono sempre in attesa del Signore che viene, e di conseguenza sono liberi e sciolti nell’uso dei beni terreni.

I cristiani si riconoscono da come vivono il lavoro. I discepoli di Cristo lavorano come tutti, ma lavorano per vivere, non vivono per lavorare. Sono liberi dall’ansia di produrre e dall’avidità di possedere. Non sacrificano al lavoro i beni primari, come l’armonia nella coppia, l’attenzione ai figli, l’assistenza ai genitori anziani. Se sono imprenditori, tengono sempre presente che l’uomo viene prima del lavoro e il lavoro prima del capitale. Oltre al giusto trattamento economico, assicurano ai lavoratori una dignitosa qualità della vita e li trattano come corresponsabili dell’impresa. Se sono lavoratori, non cadono nella piaga dell’assenteismo e, in caso di lotta sindacale, non si schierano contro qualcuno, ma sempre e solo per la giustizia.

I cristiani si riconoscono da come vivono il rapporto con i soldi. Il denaro è un pessimo padrone, ma può essere un buon servitore, purché lo si usi con distacco, purché si viva con sobrietà, si evitino scorciatoie nel guadagno, mondanità nella spesa. Se invece, avendo di che mangiare, di che vestire e una casa da abitare, i cristiani non sono contenti, è segno che qualcosa nella loro fede non va. I cristiani sanno che, se non pagano le tasse, violano il settimo comandamento che vieta di rubare, e sono coscienti che occorre il massimo scrupolo nella pronta e piena retribuzione dei dipendenti. Ma soprattutto sanno che il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri.

I cristiani si riconoscono da come vivono gli affetti. I discepoli di Cristo non cedono né alle sessuomanie né alle sessuofobie. Sanno che l’amore tra l’uomo e la donna è uno dei più grandi doni di Dio e viene da lui consacrato nel sacramento del matrimonio. Scelgono di sposarsi “nel Signore” e solo nel matrimonio ritengono lecito il pieno esercizio della vita sessuale, ma si dissociano da ogni forma di disprezzo per le ragazze madri, i divorziati risposati, i conviventi, gli omosessuali. I cristiani rispettano e difendono la vita: per questo dicono no all’aborto e all’eutanasia.

I cristiani si riconoscono da come vivono la fragilità. Non si illudono né pretendono che la protezione del Signore li risparmi dalle prove della vita, dalla croce di limiti, di crisi, dalla malattia e dalla morte, ma non disperano mai, anzi si abbandonano al misterioso ma sempre benevolo disegno del Padre, nella certezza che Dio può ricavare un bene infinitamente più grande anche dal male più atroce. Credono che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio” (Rm 8,28).

I cristiani si riconoscono da come vivono la festa e ogni domenica. Per loro la domenica non è il week-end, ma il giorno del Signore. Le vacanze di Pasqua non sono l’occasione per andare in crociera, ma per partecipare in chiesa alla passione e risurrezione di Gesù, e per rivivere il loro battesimo. Con il riposo settimanale noi cristiani dedichiamo il tempo all’incontro con il Signore e con la comunità cristiana nell’eucaristia; facciamo spazio alla comunione in famiglia, alla relazione con il creato, alla solidarietà con i poveri.

Infine i cristiani si riconoscono da come vivono la passione e l’impegno per la cittadinanza. Il sentirsi pellegrini in cammino verso la Gerusalemme celeste non li rende latitanti o indifferenti circa le sorti della città terrena. Sanno di essere obbligati in coscienza a osservare le leggi giuste, a partecipare responsabilmente alla vita civile sociale e politica, a contribuire al bene comune, per la crescita integrale di ogni uomo e dell’intera società. Quando assumono democraticamente responsabilità politiche e amministrative, hanno a cuore il disinteresse personale; rifiutano concussione, corruzione e voto di scambio; non cedono al ricatto dei poteri forti e di quelli occulti; fanno proprie le necessità dei poveri; non ricorrono alla menzogna e alla calunnia come strumento di lotta contro gli avversari; rispettano tutti, a cominciare dai fratelli nella fede che appartengono ad altri schieramenti.

In conclusione, noi cristiani crediamo che “chi segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo” (GS 22).

Ritorna allora la domanda iniziale: c’è una vita più umana di quella cristiana?

Che san Gaudenzo ci aiuti a mostrare a quanti cercano Dio nelle nostre terre che la vita cristiana è bella, buona, beata, proprio perché è la più umana.

Buon nuovo anno pastorale, santa Chiesa di Dio che vivi in Rimini!

Rimini, 14 ottobre 2011

+ Francesco Lambiasi