Farsi prossimo Come Gesù, il vero buon Samaritano

Intervento del Vescovo alla 41.a Convocazione nazionale del RnS

Ma chi l’ha detto che le parabole evangeliche siano dei semplici espedienti didattici, escogitati da rabbi Ieshù per catturare l’attenzione degli uditori? O che si possano interpretare come dei candidi raccontini edificanti, pennellati ad arte dall’unico vero Maestro per istruire discepoli, intenerire curiosi, ammorbidire avversari? Oppure che vadano prese come un innocuo dossier di ‘buoni esempi’ e di generiche esortazioni moraleggianti? In effetti la parabola si colloca dentro una dinamica conflittuale. E’ una provocazione che punge e spinge a scegliere, a schierarsi: con o contro Gesù. E’ un racconto simbolico finalizzato al cambiamento di mentalità e alla conversione della vita. Se quindi lo scopo ultimo di ogni parabola è quello di risvegliare il nostro cuore, allora la regola fondamentale per comprenderne il messaggio è di lasciarsene sorprendere.

  1. L’icona della prossimità

Ma come fare a lasciarsi ancora sorprendere da una parabola che conosciamo quasi a memoria, come quella del buon samaritano? Dobbiamo tener presente che il genere letterario di Gesù assomiglia a quello dei profeti, ma lo supera per la geniale freschezza del linguaggio usato e per l’inaudita novità del messaggio proposto. In effetti è un linguaggio vivo, colorito, immaginoso. E’ un parlare fiammeggiante, per paragoni e paradossi. Il genere parabolico di Gesù scolpisce piccole storie verosimili, ambientate nella vita ordinaria. Ma ecco, nel bel mezzo della normalità, emergere spesso lo stupefacente, l’imprevedibile più sorprendente. Poniamoci allora la domanda: dove individuare il centro della parabola del buon samaritano, quel punto magnetico attorno al quale si convogliano a raggiera tutti e singoli gli elementi narrativi? dove intercettare quel cuore pulsante della parabola che ci consenta di afferrare la ‘buona notizia’ evangelica, con una intuizione globale, più vicina alla percezione artistica che alla deduzione scientifica?

Non c’è dubbio che la ‘punta’ della parabola si trovi nella comparsa del samaritano. Qui il testo lucano ci riserva una triplice sorpresa. La prima è data dal fatto che il protagonista della vicenda appare sulla scena dopo il passaggio del sacerdote e del levita. Se teniamo conto che la narrativa popolare ama il numero tre e che nello sviluppo del racconto la serie dei personaggi va in senso discendente – dapprima sfila il sacerdote, poi, in seconda posizione, il levita, e non viceversa – gli ascoltatori si aspetterebbero che finalmente ora sbuchi dal fondo della scena la figura di un laico, magari non senza una punta polemica, in sintonia con l’annosa controversia, cara agli antichi profeti, contro un ritualismo, tutto esteriorità e nauseante ipocrisia. Insomma ci si potrebbe aspettare che a soccorrere il malcapitato intervenga al massimo un semplice uomo del popolo – appunto un laico – un israelita qualsiasi. E il messaggio sarebbe già più che stupefacente. Invece, inaspettatamente, compare un samaritano: non solo un semplice laico, ma addirittura un eretico. Pertanto, sorpresa nella sorpresa! a differenza dei primi due passanti – correligionari e connazionali del povero malcapitato, lasciato mezzo morto ai bordi della Gerusalemme–Gerico – è proprio questo straniero a prestare soccorso a quel poveretto. Tra parentesi è da ricordare che per un giudeo dire ‘samaritano’ era come dire ‘nemico’: un essere degno di disprezzo, culturalmente e spiritualmente ‘lontano’. Altro che ‘prossimo’! Ma qui scatta la terza sorpresa. Il samaritano figura nel racconto non come il personaggio bisognoso di aiuto, ma come il soccorritore che si fa carico dell’emergenza di quel poveraccio. Del resto, se si voleva inculcare il dovere di soccorrere il bisognoso, anche se straniero o nemico, avrebbe dovuto essere samaritano il ferito e giudeo il soccorritore. Invece – è appunto il terzo paradosso – qui avviene proprio il contrario.

A questo punto il messaggio della parabola appare in tutta trasparenza. Vuoi capire veramente chi devi considerare tuo prossimo? Prova un po’ ad immaginarti nei panni di quel malcapitato, ferito dai banditi e abbandonato, ormai in fin di vita, ai margini della strada. Vorrei proprio vedere se, in quel frangente da incubo, e dopo che ben due connazionali di ineccepibile ascendenza israelitica hanno proseguito senza fermarsi, tu staresti a tirare in ballo tutta la filastrocca dei tuoi tabù, e rifiuteresti di farti toccare dalle mani impure di quel samaritano. O se invece non vorresti, disperatamente, che quel samaritano si fermasse, non tenesse conto della barriera di ordine etnico-religioso e finalmente ti considerasse suo prossimo… semplicemente in quanto uomo, punto!

  1. La grammatica della prossimità

Ora possiamo dedicarci a una rilettura, quasi alla moviola, della nostra parabola.

L’antefatto: un fattaccio di cronaca nera, avvenuto sulla Gerusalemme- Gerico. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (v. 30) “Un uomo…”: ma chi è l’uomo? E’ la gloria di Dio. Gloria Dei homo vivens, scriveva s. Ireneo. Dio trova la sua gloria nel fatto che l’uomo viva e raggiunga la piena realizzazione della sua umanità. Ma questo uomo incappato nei briganti, derubato, percosso a sangue e tramortito, è un essere povero, ferito, fragile, indigente e sofferente. E’ l’uomo di cui si è interessato il Concilio, così descritto da Paolo VI: “l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo fragile e infelice di sé”. Ma – aggiungeva – “l’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del concilio. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito l’attenzione del nostro concilio”. Dunque, l’uomo come essere-di-bisogno. A questo punto il beato O. Romero completa Ireneo: Gloria Dei vivens pauper (“La gloria di Dio è la vita del povero”). “Dio non ama tanto ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere” (A. Rizzi). Il lebbroso di Assisi non ha diritto al bacio di Francesco, ma ne ha bisogno. E Francesco lo abbraccia e lo bacia. Da quel giorno Francesco smise di adorare se stesso, e cominciò a diventare prossimo verace dei poveri e piccolo fratello universale.

I verbi della non-prossimità. Sia il sacerdote che il levita “vedono e passano oltre”. Interessante il verbo greco – antiparerchomai – per dire “passare oltre”. E’ un verbo composto con due preposizioni: antì (dall’altra parte, dal lato opposto) e parà (accanto). Potremmo tradurre benissimo quel verbo greco con il nostro bypassare: i primi due passanti bypassano il poveretto tenendosi a debita distanza per non contaminarsi, e strisciando con le spalle lungo il muretto della curva. Ma perché Gesù sceglie come figure negative, proprio un sacerdote e un levita? Probabilmente per evidenziare la loro paura di contaminarsi – e il sangue contaminava – e quindi la preoccupazione di salvaguardare la propria purezza cultuale. Ma in questo modo essi, stravolgendo il messaggio dei profeti, dimenticano che il culto a Dio non è vero se non si traduce anche in servizio al prossimo. Infatti, come si legge nel passo parallelo di Marco, “amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (12,33b).

Il dodecalogo del farsi prossimo. Ritorniamo ora indietro e tentiamo di rifare il tragitto del samaritano, procedendo quasi al rallentatore e provando a declinare i dodici verbi che ne fotografano azione, stile e sentimenti.

I primi due verbi – viaggiare, passare accanto – si direbbero i verbi del caso e del rischio. Come “per caso” (v. 31) il sacerdote e il levita erano passati poco prima per quella strada, così anche il samaritano sta compiendo un viaggio nella stessa direzione e quindi era giocoforza per lui imbattersi in quel malcapitato, ferito e in fin di vita. Questo samaritano è un uomo normale: non è né un fariseo osservante e neanche uno scrupoloso ministro del culto, come invece i primi due personaggi. Lui sa bene che fare quella strada significa correre seri rischi di qualche agguato, per sé e per gli altri. Amare è rischiare.

Seguono due verbi che vanno tenuti inscindibilmente uniti: vedere e avere compassione. Li potremmo chiamare i verbi degli occhi e del cuore. L’evangelista Luca li ha già usati a proposito di Gesù: quando entrando a Nain egli si imbatte nel corteo funebre per il figlio unico di una povera vedova, il Signore “vedendola, fu preso da grande compassione” (Lc 7,13). Vuole forse insinuare l’evangelista che è Gesù il buon samaritano? Da ricordare che “avere compassione” traduce un verbo tipicamente femminile, e letteralmente si dovrebbe rendere con “sentirsi smuovere il grembo”: come la mamma, quando vede il suo bambino correrle incontro, si sente smuovere le viscere dalla commozione, così è fatto Gesù. E così è fatto Dio: di fatti i due verbi ricorreranno anche nella parabola del padre misericordioso per descrivere i sentimenti di quel papà nel momento in cui corre incontro al figlio: “lo vide, (ne) ebbe compassione” (Lc 15,20). “Avere compassione”: è il segno di riconoscimento del samaritano e di colui che si è fatto prossimo, come riconosce lo stesso scriba (cf Lc 10,37). Amare è lasciarsi spezzare il cuore.

Ed eccoci ai tre verbi del “pronto soccorso”: il samaritano gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino. Li possiamo denominare i verbi dei piedi e delle mani. Sono i verbi della concretezza e della competenza, senza di cui la compassione risulterebbe sterile e retorica. Gli si fece vicino, cioè prossimo, e questa prossimità si traduce in un intervento abile ed esperto: il vino disinfetta, l’olio lenisce le ferite. Amare è sporcarsi le mani.

Infine vengono i tre verbi: “lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui”. Sono i verbi della cura: dopo l’intervento di emergenza, il samaritano compassionevole deve organizzare il ‘dopo’, per non vanificare il suo stesso pronto soccorso. Per questo l’indomani, sul punto di riprendere il viaggio programma tutto il possibile decorso del malato, fino a completa guarigione: Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.

Dare e pagare: sono gli ultimi due verbi. Il samaritano non dice all’albergatore: “Basta, già dato”. Ma “ti do e ti darò ancora quanto occorre per la pronta e piena guarigione di questo poveretto”. Non è possibile donare senza spendere. Ma è possibile, purtroppo, spendersi senza donarsi. Amare è prendersi cura. E’ donarsi e spendersi.

  1. La sintassi della prossimità

Ora andiamo alla conclusione della parabola. Come abbiamo visto la scintilla per la risposta di Gesù, era scoccata alla domanda dello scriba: “E chi è mio prossimo?”. Alla fine della storia del samaritano, Gesù ribatte in contropiede con la controdomanda: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Il dottore della Legge voleva sapere chi ha il diritto al suo amore. Cristo risponde indicandogli chi, lui, maestro in Israele, ha il dovere di amare. Dal prossimo come oggetto da amare, Gesù invita a passare al prossimo come soggetto che ama. Tu – dice Gesù – non hai un prossimo; tu ti fai prossimo di qualcuno. Ma questo non sarà mai possibile, se tu ti mantieni a debita distanza: devi avvicinarti tu a lui – appunto devi tu approssimarti a lui, devi tu farti suo prossimo – allora non potrai non provare per lui una sincera compassione. Il vero problema non è di ordine teorico – chi io devo considerare mio prossimo? – ma di ordine etico-pratico: a chi io devo farmi prossimo? E io devo farmi prossimo a chiunque, abbattendo distanze e barriere dentro di me, sbriciolando muri e steccati fuori di me. In breve: il problema non è mai quello di avere un prossimo da amare, selezionandolo accuratamente. Il problema è di essere prossimo a chi ha bisogno di essere amato.

Ma non è ancora tutto. Ci tocca ora identificare chi è il vero Samaritano della parabola. Sia la splendida icona di P. Rupnik che campeggia alle mie spalle, sia il titolo della vostra Convocazione ci fanno rispondere: Gesù è il vero “buon Samaritano”. Lui non si è mai chiesto se noi gli eravamo prossimi. E’ venuto lui a farsi prossimo a noi. Non si tratta di una interpretazione devota. E’ una corretta identificazione, che risale a diversi padri della Chiesa. Due fra i tanti. Sentite sant’Ambrogio: “Questo Samaritano, che stava scendendo – chi è Colui che è disceso dal cielo, se non colui che è asceso al cielo, il Figlio dell’uomo che è nel cielo? – vedendo l’uomo mezzo morto, (…) si avvicinò a lui, cioè: si fece simile a noi avendo preso su di sé la nostra compassione, e ci si fece vicino donandoci la sua misericordia”. Sentite sant’Agostino: “Il Signore nostro Gesù Cristo (ci) fa comprendere che è stato lui stesso ad aiutare quel mezzo morto che giaceva lungo la via, maltrattato e abbandonato dai briganti. Per questo il nostro Signore e Dio volle chiamarsi nostro prossimo”. Gesù, effettivamente bollato dai Giudei durante la sua vita come “samaritano” (Gv 8,48), è andato oltre ogni limite per accogliere i peccatori, e così ci ha rivelato l’amore del Padre.

Ma da che cosa si riconosce che Gesù è il vero buon Samaritano? Lo si riconosce dai suoi occhi. Non ne sappiamo il colore, ma ne conosciamo il calore. L’abbiamo già detto: negli occhi di Gesù arde il fuoco della compassione. E’ di sabato, e Gesù sta insegnando in una sinagoga. Tra la tanta gente che lo sta ascoltando, c’è una povera donna malata da diciotto anni. Era ricurva e non riusciva in nessun modo a stare dritta. “Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: ‘Donna, sei liberata dalla tua malattia’. Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio” (Lc 13,10-13). Gli occhi di Gesù si colorano di tristezza nel vedere il giovane ricco andare via triste (Lc 18,24). Si velano di pianto alla vista della città santa e al pensiero del male che si stava addensando su di essa e sui suoi figli, quando un giorno sarebbe stata assediata e distrutta (Lc 19,41-44). Si colmano di dolore, ma intriso di profonda misericordia quando Pietro lo rinnega per la terza volta, e, trafitto dallo sguardo del Maestro, “uscito fuori, pianse amaramente” (Lc 22,61s).

Il buon Samaritano-Gesù ci si rivela dalle sue preferenze. Una, molta spiccata, è la convivialità. Per rimanere all’evangelista Luca, la ritroviamo da lui rimarcata per ben 10 volte: 3 volte per Gesù risorto (cf. Lc 24,30.43; At 1,4) e ben 7 volte durante la sua vita pubblica. Gesù ama mangiare insieme , e non con le anime belle e pie della Palestina, ma con i pubblicani e i peccatori; con il fariseo che schifa la peccatrice; con la stanca folla dei circa 5mila uomini; con il fariseo maniaco delle abluzioni; con uno dei capi dei farisei che lo spia per vedere se ha il coraggio di guarire un idropico di sabato; con i Dodici pronti ad abbandonarlo la sera dell’ultima cena.

Il Samaritano-Gesù si fa riconoscere dai suoi gesti tipici, in particolare da quello che diventerà suo speciale segno di riconoscimento: il gesto dello spezzare il pane. Vedi alla moltiplicazione dei pani (Lc 9,16); all’ultima cena (22,19); a conclusione dell’incontro con i due di Emmaus, quando “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”, per cui quando i due torneranno a Gerusalemme racconteranno “come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (24,31.35).

Ma c’è un ultimo segno che li supera tutti e che in un certo senso permette al Samaritano-Gesù di superare se stesso: è il segno della croce. Il Crocifisso finora ha dato tutto: tempo, talenti, sapienza, mitezza, bontà sconfinata, gratuito perdono. E amore totale, incondizionato, in-credibile. Gli rimane da dare il segno dell’amore più grande: donare la vita per i propri amici. Ma ora egli supera se stesso perché dona la vita addirittura per i propri nemici. Viene assalito dagli insulti dei passanti, dei capi del popolo, dei soldati: “Salva te stesso, scendendo dalla croce”. L’evangelista Luca aggiunge che anche uno dei due malfattori continuava a sfidarlo: “Salva te stesso e anche noi!”. Ma Gesù non può più salvare se stesso. Ed è proprio così, è proprio per aver rinunciato per amore nostro a salvare se stesso, che può salvare tutti noi.

In conclusione, la parabola del buon samaritano, specchiata nella vicenda di Gesù nostro vero buon Samaritano, ci chiede e, insieme, ci consente di ridefinire tutti i personaggi in gioco della spiritualità evangelica della prossimità.

L’io. Io non mi posso definire girando attorno a me stesso, né ripiegandomi o rinchiudendomi nella gabbia dorata del mio io. Io non sono né il padre né il padrone del mio io. Se il buon samaritano è l’io che trova la propria identità soccorrendo l’altro, allora è vera la parola di Gesù: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, la smetta di pensare a se stesso (trad. TILC), prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà” (Mc 8,34s). Rinnegare me stesso non è solo la condizione indispensabile per poter salvare l’altro, ma è anche l’imprescindibile premessa per salvare veramente me stesso. Nell’approssimarmi all’altro, il mio ‘io’ diviene un ‘tu’ per l’altro, e in questo modo viene ad essere con più verità ‘io’. Ne va dell’essere mio e altrui.

L’altro. E’ mio fratello. E da quando Caino ha ucciso Abele, io non posso più dire: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Dal corpo martoriato del povero, sale la voce del sangue e chiama il samaritano a “farsi prossimo”. E’ l’essere-di-bisogno la nuova identità del povero. E’ il bisogno-di-essere che fa scaturire dalla sua umanità fragile e negata il grido di aiuto, l’accorato appello alla salvezza dal naufragio del non-essere. Papa Francesco dedica un passaggio alla nostra parabola, nella sua recente esortazione apostolica Gaudete et exsultate (98):

Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?

Dio. Come la ridefinizione dell’io è intrecciata con quella dell’altro, così ambedue lo sono con la ridefinizione di Dio. Infatti – la parabola lo insegna in modo insinuante – la compassione viscerale provata dal samaritano, che lo spinge a farsi prossimo del malcapitato, è la partecipazione dell’amore stesso di Dio Padre che manda suo Figlio a farsi prossimo e buon Samaritano dell’umanità, ferita a morte dal Maligno. Papa Francesco, nella stessa esortazione (n. 106) cita s. Tommaso: “Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo. Perciò la misericordia con la quale si soccorre la miseria altrui è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo”.

Fratello, Sorella, chi è il tuo prossimo? E’ il Samaritano che ti ha salvato. Rallègrati! Iscriviti alla sua scuola. Impara da lui. Fatti prestare i suoi occhi per vederlo nel tabernacolo della carne piagata del povero. Fatti trapiantare il suo cuore per amarlo in ogni fratello sofferente. Donagli le tue mani per soccorrere, per curare e accarezzare. Prestagli anche i tuoi piedi per farlo ‘approssimare’ a chi è nel bisogno. Poi va’ e anche tu fatti buon samaritano.

Pesaro, 28 aprile 2018

+ Francesco Lambiasi