Diaconi: servitori per amore

Non facchini sgobboni e frustrati

Omelia del Vescovo per l’ordinazione diaconale di Paolo Amadori, Stefano Conti, Marco Evangelisti, Massimo Gabrielli

Felice coincidenza! Quando abbiamo preparato questa celebrazione, avremmo potuto scegliere altri brani per la liturgia della Parola, eventualmente ritenuti più adatti al contesto di questa ordinazione diaconale.

Ma ci siamo resi subito conto che non c’era bisogno di lasciare quelle già previste per questa 25.a Domenica del Tempo ordinario (Anno B). Questo perché non solo vi si parla espressamente di servizio (in greco, diakonia), ma perché questa è la prima delle uniche due ricorrenze dell’intero vangelo secondo Marco in cui ricorre letteralmente la parola diakonos. Certo, non nel senso canonico-ministeriale del termine, ma nell’accezione normale di servitore: “Se uno vuole essere il primo, sia il servitore di tutti”.

 

1. Il passo evangelico ‘fotografa’ due scene. Nella prima Gesù si autopresenta come il Figlio dell’uomo. Questa espressione “Figlio dell’uomo” è l’autoidentificazione preferita da Gesù per indicare la sua prerogativa come Messia, l’inviato di Dio, il quale, secondo l’opinione prevalente, avrebbe incenerito i suoi avversari e sbaragliato i propri nemici. Ma Gesù capovolge questa idea corrente di Messia, e dice che lui sarebbe stato ‘consegnato’ nelle mani degli uomini. Consegnato: verbo da brivido, che allude a un destino di croce e di morte.

La seconda scena riproduce il Maestro arrivato a Cafarnao mentre interroga i discepoli, e serve all’evangelista per rimarcare con accanimento quasi ossessivo l’incolmabile distanza tra Gesù e i suoi. Il Maestro è ormai diretto decisamente verso Gerusalemme e per la seconda volta ha appena annunciato la sua passione, ma i discepoli “non hanno compreso” e non hanno osato domandare spiegazioni. Il malinteso non potrebbe essere più irriducibile: Gesù parla di servizio, i discepoli sognano il successo. Gesù parla di una strana “classifica” in cui i primi sono gli ultimi e viceversa, mentre i discepoli si sbracciano ostinatamente per conquistare il podio del vincitore; Gesù parla di croce, i suoi vogliono solo trionfi e applausi, Sognano scettri, corone e medaglie.

L’interesse dell’evangelista risulta quanto mai attuale. San Marco sa bene che il focolaio di infezione dovuto ai batteri dell’ambizione più sfacciata non è stato cauterizzato dal fuoco della Pentecoste. In effetti il virus dell’arrivismo fa ancora strage anche dentro la Chiesa, e la sindrome da primato scatena protagonismi e competizioni, ingenera risse e contese, produce divisioni e conflitti. Ma il Maestro non ha paura di portare la questione allo scoperto: chi è dunque il più grande? Per rispondere, Gesù sale ‘in cattedra’: san Marco lo inquadra “seduto”, perché questa è la posizione caratteristica del maestro, quando deve dare una lezione importante. In effetti qui Gesù comunica la nuova legge, consegna autorevolmente la sua scala di valori. La legge nuova è quella liberante dell’amore, che soppianta la legge mortale dell’egoismo, del narcisismo, dell’arrivismo.

Per farsi capire Gesù pone un gesto decisamente destabilizzante: prende un bambino, lo mette al centro e poi lo abbraccia, come a dire: Attenzione! Voi discepoli siete abbagliati dal mito del super-uomo e cercate di sgomitare per salire sempre più in alto. Ma la gerarchia nel regno dei cieli è come una scala rovesciata: colui che è veramente grande è chi si fa piccolo, e viceversa. E chi è veramente primo è l’ultimo, e viceversa.

Il bambino infatti, secondo la mentalità del tempo, era il simbolo dell’uomo non (ancora) realizzato, l’ultimo di tutti. Diventa perciò l’immagine del discepolo, perché è la copia conforme all’originale, il Maestro, il quale “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò e umiliò se stesso”. Letteralmente potremmo tradurre: oscurò e azzerò se stesso.

2. Ancora una volta Gesù si presenta come il Messia “capovolto”, l’inviato di quel Dio che ribalta classifiche, audience e hit-parade. Come canta Maria, il Signore Onnipotente “ha rovesciato i potenti dai loro troni, e ha innalzato gli umili”. Noi ci preoccupiamo di salire in alto per stare al di sopra degli altri, ma se Dio è sceso sulla terra e si è fatto piccolo come un bambino, non risulta patetica e ridicola la nostra pretesa di innalzarci? Del resto il vero posto d’onore è quello più vicino a Gesù per poter essere da lui abbracciati, come quel bambino accolto con tenerezza dal Maestro. E quando abbiamo ‘guadagnato’ quel posto nel suo cuore, cosa ci importa di titoli, poltrone e precedenze secondo gli effimeri criteri mondani? Gesù insegna: il discepolo non è grande se occupa un posto in prima fila, se esibisce un biglietto da visita con una litania di titoli roboanti, se viaggia in una grossa auto blu o nera, ma se nella sua vita sa accogliere chi è senza importanza agli occhi del mondo. Il discepolo è rispettabile nella misura in cui mostra rispetto e dimostra onore verso quelli che non ne ottengono dai figli di questo mondo.

Ma ci rendiamo conto ora del pericolo che corriamo nel ritornare a questa lezione di Gesù? Il pericolo, reale e concreto, è quello di prendere questo messaggio come una predica ‘in conto terzi’, cioè pensandola destinata ad altri, a quanti fuori e dentro la Chiesa, sono più in alto di noi. Se cadessimo in questa trappola, rischieremmo un grosso abbaglio. Non c’è infatti tentazione più subdola e sottile che quella di pensare che l’ambizione sia una brutta piaga che colpisce sempre e solo gli altri. Ma non è forse questo un modo per ‘chiamarsi fuori’ dalla mischia e per posizionarsi, anche solo di qualche centimetro, al di sopra degli altri? Tutti infatti siamo portati a mettere al centro della nostra vita non il più piccolo, ma il più grande, che poi è infallibilmente quasi sempre il nostro piccolo-grande io! Un vero capovolgimento ci è richiesto, che serve certo a rovesciarci, ma per rimetterci in piedi, in posizione eretta.

E’ ora di formularvi, carissimi, tanti auguri. In breve vi auguro tanta, ma tanta gioia. Ma la gioia evangelica, lo sappiamo, è il frutto di una pianta che trova le sue radici nella gratuità, nell’amore, nell’umiltà.

Gratuità: non rodetevi mai il fegato se quanti arrivano a servire nella vigna del Signore fin dalla prima ora guadagnano quanto quelli dell’ultima ora. Perché è più importante sentirsi amati che vedersi pagati a tariffa sindacale: parola di Gesù.

Amore: quando si serve, non importa quanto si dà o si fa, ma quanto amore si mette nel dare o nel fare: parola di Madre Teresa di Calcutta.

Umiltà: non basta che si serva e si sudi per Gesù, perché, così, il rischio è che ci si riduca a facchini sgobboni e frustrati, ma il Signore non vuole questo. Gesù vuole che noi serviamo in lui, come servi nel Servo, come discepoli innamorati, fedeli, fidati e affidabili: parola di don Oreste.

Rimini, Basilica Cattedrale – 19 settembre 2021

+ Francesco Lambiasi