Cristiani laici: profeti del quotidiano

Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della s. Messa per le Aggregazioni Laicali – Basilica Cattedrale, 25 novembre 2011

         Tra il fondamento e il compimento: è qui che si colloca il cammino del cristiano nella storia: nello spessore tridimensionale di passato, presente, futuro. Qualcuno dice che è il presente lo spazio proprio dei laici cristiani, un presente che si distende tra la memoria del passato (carisma tipico dei pastori) e l’attesa del futuro (specifico carisma dei religiosi). Ma se è vero che il battesimo è il tratto identificativo di base di ogni discepolo di Cristo – sia laico, sia pastore, sia consacrato – allora si deve dire che ogni cristiano laico, in quanto battezzato, vive immerso nel grande fiume dell’amore che attraversa la storia. E dunque anche ai cristiani laici appartiene la memoria del passato come pure l’attesa del futuro, ma questa memoria e questa attesa i fedeli laici sono chiamati a viverle nel presente: “Annunciamo la tua morte, o Signore; proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.

1. Il rischio per tutti noi credenti è quello di dimenticare sia da dove veniamo che verso dove siamo diretti; ed è per questo che la parola del Signore, ci sollecita continuamente a vigilare, a non andare in letargo, e per questo ci pungola continuamente ci esorta con tre verbi all’… in-finito: ricordare, vigilare, attendere. Vigilare, ricordando l’evento della prima venuta del Signore; attendere l’evento della sua ultima venuta.
“Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi – ci ha detto il Signore -: quando già germogliano, capite da voi stessi, guardandoli che l’estate è vicina”.
Oggi, penultimo giorno dell’Anno liturgico, la Chiesa chiude il cerchio: ci fa ritornare alla foce del fiume della storia per sbilanciarci verso il suo estuario. Non per nulla proprio da domani sera l’Anno liturgico riprenderà il suo corso cominciando proprio dal messaggio evangelico di questa sera. Abbiamo quindi una oscillazione pendolare: dall’evento di duemila anni fa al compimento finale, e dal compimento all’evento.
Per noi che rischiamo di vivere di solo presente – life is now! ripete ammiccante uno slogan della pubblicità televisiva – la liturgia apre una breccia nel muro del tempo, perché possiamo guardare oltre. Ma quando il presente diventa il frammento puntiforme, non affonda più le radici nell’evento e non si sbilancia più verso il frutto del compimento, allora il fine della storia diventa ineluttabilmente la fine totale, una fine drammatica e desolante. Detto con altra metafora: senza la visione periscopica della storia, un presente che non trasforma continuamente la massa del passato in energia di futuro, diventa uno zero, e la storia uno zibaldone di storie abortite e azzerate.

         2. In positivo, la fede cristiana ci ricorda che la fine sarà un… inizio senza fine: Cristo verrà per l’ultima volta “con grande potenza e gloria”. La sua manifestazione sarà il traguardo di ogni esistenza umana e di tutta la storia: il Crocifisso-Risorto darà senso a tutto e chiarirà il senso di tutto. Verrà come “giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio” (At 10,42): allora crollerà lo scenario falso e spietato di questo mondo, apparirà Cristo come il vero Vincitore nella lotta tra il bene e il male, e tutti “saremo giudicati sull’amore” (san Giovanni della Croce).
“Ciascuno raccoglierà quello che ha seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna” (Gal 6,7-8). L’egoismo causa la morte; la carità genera la vita. E così “saremo sempre con il Signore” (1Ts 4,17), in piena armonia con Dio, con gli altri, con noi stessi: nella gioia perfetta si acquieterà finalmente il desiderio sconfinato del nostro cuore perennemente inquieto, spesso ripiegato sull’effimero, ma pur sempre spalancato sull’infinito. Allora sarà la fine: una festa senza fine, il giorno senza tramonto.
Questa fede è tutt’altro che alienante: “l’attesa delle ultime cose implica l’impegno per le penultime” (Bonhoeffer). La salvezza nella storia e oltre la storia fonda l’originalità dell’atteggiamento cristiano nei confronti delle realtà terrene. Rispetto al non credente, il cristiano ha motivi ancora più forti per impegnarsi nel costruire la “civiltà dell’amore”: “Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in serio pericolo la propria salvezza eterna”: ecco una delle perle più preziose dello scrigno del concilio Vaticano II (GS 43). Attendere con speranza e fiducia il pieno compimento dell’umano “travaglio” significa rimboccarsi le maniche per l’azione. “Il cristiano è sempre come seduto sul bordo estremo della sua sedia. Seduto su quello che dispone di un appoggio sicuro: la speranza. All’estremo bordo della sedia, perché è pronto ad alzarsi e a pagare di persona” (G. Danneels). Chiaro e limpido: il sofà del “mollaccione” non si addice all’arredo di casa di un cristiano doc.
L’Eucaristia è il viatico che ci dà la sicurezza di partecipare fin da ora alla realtà della vita nuova, e “ci prepara il frutto di una eternità beata”. Preghiamo perché ogni giorno attendiamo la manifestazione gloriosa del Signore: fiduciosi nella speranza, operosi nella carità.

         3. Riandiamo al tema dell’anno pastorale in corso: Immersi nel Suo amore. C’è una vita più umana di quella cristiana?“.
La memoria del passato, l’attesa del compimento, la vigilanza nel presente rendono la nostra storia una divina avventura, e perciò ne fanno la storia più umana.
Quando la vita è illuminata da questa certezza, allora diventa un pellegrinaggio, non un fortunoso vagabondaggio, e neanche una più o meno piacevole gita turistica: quindi non dobbiamo mai illuderci di essere già arrivati e non possiamo mai dimenticarci di dove siamo diretti. Perché il Signore viene!
La vita che ci è donata è la più umana perché ci attrezza per il “santo viaggio” con un equipaggiamento leggero, con la “bisaccia del pellegrino”, munita dell’essenziale, per cui ci muoviamo di tappa in tappa, non ci spostiamo di poltrona in poltrona. Perché il Signore viene!

La vita cristiana è la più umana perché ci fa considerare gli altri – familiari, amici, colleghi – nostri compagni di pellegrinaggio: quindi ci fa amare ognuno come un fratello avuto in dono senza mai bramare di possedere alcuno come proprietà privata; ci fa servire tutti, ma non asservire nessuno. Perché il Signore viene!

La vita cristiana è la più umana perché ci fa ritenere la salute, il lavoro, il denaro, il divertimento per quello che sono: non come privilegi da difendere, ma come doni da condividere; come dei mezzi utili per il pellegrinaggio, non come le mete ultime del cammino. Perché il Signore viene!

La vita cristiana è la più umana perché ci porta a compiere il servizio che ci è richiesto, come fosse l’ultimo, ma sempre come “servi inutili”: con i fianchi cinti e le lucerne accese. E sempre pronti a ripiegare le tende per andare là dove siamo chiamati, senza accasarci mai da nessuna parte, fin quando non arriveremo al giorno beato dell’incontro definitivo. Perché il Signore viene!

La vita cristiana è la più umana perché ci fa guardare al futuro non come a un fato incombente e implacabile, né come ad un destino fortuito, volubile e capriccioso; ci fa sperare che la sofferenza, la malattia, la morte e tutte le catastrofi, naturali o sociali, non siano l’ultima parola della storia.

La vita cristiana è la più umana perché ci aiuta a ricevere, guardare e onorare le creature “come se al presente uscissero dalle mani di Dio” (GS 35); ci convince pure – secondo una ardita espressione – che vale la pena piantare un seme oggi, anche se si sapesse che il mondo finirà domani (Lutero).

La vita cristiana è la più umana perché è la più laica: fa di voi laici i profeti del quotidiano, che vivono con semplicità, senza chiasso, senza integralismi o fondamentalismi il Vangelo nella vita di tutti i giorni.

Intanto, nell’attesa di nuovi cieli e nuova terra, ogni seguace di Cristo prosegue il suo pellegrinaggio verso la patria. Esorta s. Agostino: “Canta dunque come il viandante, canta e cammina, senza deviare, senza indietreggiare, senza voltarti. Qui canta nella speranza, lassù canterai nel possesso. Questo è l’alleluia della strada, quello l’alleluia della patria”.

Maran athà: il Signore viene. Maranà tha: vieni, Signore Gesù!

 + Francesco Lambiasi