Assumendo la condizione di servo

Donare e servire: voci del verbo amare

Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della Messa “in cena Domini”

Due azioni simboliche, due segni paradigmatici, due gesti diversi: un solo identico, trasparente significato. Eucaristia e lavanda dei piedi sono strettamente legate e intrecciate. Differente il linguaggio, equivalente il messaggio.

C’è un pane sulla tavola e c’è del vino. Il pane non è un pane qualsiasi. E’ la stessa vita di Gesù, una vita da lui interamente offerta, irreversibilmente donata. In effetti Gesù ha consegnato tutto, senza nulla trattenere per sé, senza nulla aspettarsi in cambio. Ha donato i suoi giorni e le sue energie, la sua fortezza e la sua dolcezza, la sua potenza e la sua impotenza. Ha donato le sue lacrime e le sue carezze, la sua lotta irriducibile contro ogni ipocrisia e la sua difesa ad oltranza di ogni fragilità. Ha offerto tutto se stesso, con illimitata gratitudine verso il Padre e con irreversibile gratuità verso i fratelli. In ultimo ha fatto dono anche del suo corpo, della sua stessa esistenza.

C’è del vino sulla tavola: è il frutto della vite e del nostro lavoro, ma non è un vino qualsiasi. Ha il colore del sangue, il calore dell’amore, il sapore del sacrificio. In effetti Gesù ha versato il suo sangue sulla croce, per la nuova e perfetta alleanza, un’alleanza tra Dio e i suoi figli, tra il cielo e la terra, un vincolo così saldo che nulla ormai potrà spezzare. Non solo il suo corpo Gesù ci ha messo tra le mani, ma anche il suo sangue. Non solo la sua vita, ma anche la sua morte.

C’è pure un catino e una brocca, un grembiule e un asciugamano. Gesù “depone” le vesti e poi le “riprende”. I due verbi greci sono utilizzati per farci comprendere la morte di Gesù, da lui liberamente accettata, e la vita nuova donatagli dal Padre nella risurrezione da morte. Ora, Gesù si alza da tavola, si curva a terra, si inginocchia davanti a noi, si piega sui nostri piedi ridicoli e sporchi, si espone al tanfo dei nostri odori più sgradevoli e scostanti. E scrive il suo testamento: “Se io ho lavato i vostri piedi – non dice: Anche voi li dovete lavare a me, ma – anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri”.

E’ il secondo segno. Strano: lo racconta solo l’evangelista Giovanni, che pure aveva registrato la promessa del pane di vita. Matteo, Marco e Luca, invece, ricordano il pane spezzato e il calice del vino offerto ai commensali. Ma il significato dei due gesti simbolici – della lavanda dei piedi e della frazione del pane – è identico. Gesù sceglie di inginocchiarsi davanti a noi, di farsi nostro servo, pur di farci entrare in una esistenza nuova, più che umana. Per amore si mette a lavare i nostri piedi per liberarci da ogni male, per strapparci a ogni cattiveria, per toglierci la sporcizia che si è accumulata sulla nostra pelle e si è depositata nel nostro cuore. Per estremo amore versa il suo sangue, dà la sua vita, vuol diventare nostro cibo, brama ardentemente di venire in noi, si trugge nell’ansia di vivere in noi e di farci vivere con lui, per lui, in lui.

I gesti compiuti in quell’ultima cena ci dicono che donare la vita è la verità di Gesù. La sua morte è stata la conclusione di una intera esistenza spesa per noi e a nostro vantaggio. Gesù muore come ha vissuto: “per le moltitudini” (Mc 14,24). Se i primi cristiani hanno capito che la sua morte fu un dono per tutta l’umanità, è perché avevano già visto prima Gesù vivere per tutti. I gesti del cenacolo ci dicono, inoltre, che questa è la verità della Chiesa: donare e servire, non farsi servire e riverire. La Chiesa di Cristo non è fatta per il potere e la vanagloria, ma per l’umile dedizione e per il servizio: generoso, fedele, gratuito, gioioso. I segni del cenacolo ci dicono, ancora, la verità sulla nostra storia di uomini e di donne: la vita non è fatta per essere trattenuta, ma per essere donata. E se la voglia di potere, di supremazia, di dominio è il principio di distruzione della convivenza umana, il baricentro del mondo nuovo inaugurato da Gesù si riconosce nella grande famiglia del verbo amare. Il verbo più forte e più dolce, di cui donare e servire sono i derivati più umili, più concreti e fecondi. Perché l’amore senza la generosità del donare è sterile. Senza l’umiltà del servire è futile.

Che tu sia benedetto, Signore Gesù,
per tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle
che hanno seguito alla lettera il tuo esempio
di generosa dedizione e di limpido servizio.
Che tu sia benedetto, Signore Gesù
per tutti coloro che si sono spesi
senza riserve e senza ricatti
a favore dei piccoli e dei poveri,
degli emarginati e degli esclusi.
Che tu sia benedetto, Signore Gesù,
per quanti hanno speso la loro vita
a servizio degli ultimi della terra
senza aspettarsi attestati e medaglie,
felici solo di aver sempre condiviso

tristezze e tragedie, lacrime e tormenti
Che tu sia benedetto, Signore Gesù,
per tutti quelli che non hanno esitato
a offrire gratuitamente la loro stessa vita,
come fa sottoterra il piccolo chicco di grano,
che, marcendo, muore e dona la vita
e la dona sempre, in sovrabbondanza.

Rimini, Basilica Cattedrale, Giovedì Santo, 1 aprile 2015

+ Francesco Lambiasi