Alla bottega del ‘figlio del falegname’

Omelia del Vescovo nella Veglia per la Festa del Lavoro

Vi confesso: parlare del vangelo del lavoro in tempo di pandemia mi risulta doppiamente difficile: per la questione, particolarmente spinosa, del lavoro, e per il drammatico contesto della pandemia. Ma a me non tocca ora di presentare una analisi informata e ragionata della situazione del lavoro oggi. Tanti di voi lo potrebbero fare, e molto meglio di me. A me tocca annunciare il vangelo del lavoro, e il vangelo è sempre un annuncio di speranza. Vediamo allora di salvare almeno la speranza custodita nel vangelo di Nazaret, appena proclamato (Mt 13,53-58).

1. Gesù si presenta ai suoi paesani, preceduto dalla fama già guadagnata a Cafarnao e dintorni (Lc 4,23). Nella sinagoga serpeggia un mix di intrigante curiosità e di accesa perplessità, mugugnata tra acidi pettegolezzi. Cosa avrà mai combinato in tutto questo frattempo il nostro Jeshù? Dicono che abbia compiuto mirabolanti prodigi. Che abbia sciorinato in giro tanta sapienza.

Di colpo la meraviglia si rovescia in delusione: “Non è costui il figlio del falegname?”. Come a dire: Cos’ha in più di noi? Certo, sarà pure un bravo ragazzo. Per anni e anni ha lavorato a bottega con il padre Giuseppe, ‘buonanima’. Però, non ha mica studiato all’Accademia rabbinica di Gerusalemme! Cosa va cercando adesso? Si sarà certamente montato la testa.

Ecco lo scandalo della fede. Uno che si presenta con questo biglietto da visita – il figlio del falegname – si ritrova con mani da carpentiere e magari con un cuore da sognatore. Allora vada pure a dirlo in giro che è il Messia, ma non lo venga a dire a noi che lo abbiamo visto crescere, sgobbare, certo anche frequentare la sinagoga e accogliere poveri, malati e disgraziati. Ma in tutto e per tutto è, alla fin fine, uno come noi. Niente di meno. Niente di più!

2. Care Sorelle, cari Fratelli, ora lasciamo Nazaret e veniamo a noi. Gesù, il figlio del falegname ha imparato da Giuseppe, suo padre adottivo, il valore, la dignità e la gioia del mangiare il pane, frutto del proprio lavoro.

Ora, a 130 anni dalla Rerum Novarum, possiamo affermare che questo ampio intervallo di tempo, ‘coperto’ dalla Dottrina Sociale della Chiesa ci abbia fruttato un ”vangelo del lavoro”, che forse si potrebbe sintetizzare con pochi, ma spero sostanziosi passaggi.

Noi cristiani crediamo che il lavoro non sia affatto un castigo, ma un compito. In effetti il lavoro viene prima del peccato delle origini. E’ una volontà di Dio, il quale potrebbe fare tutto da sé, ma non vuole fare niente soltanto da sé. Il lavoro è la risposta dell’uomo con-creatore all’incarico che gli viene affidato da Dio nostro creatore.

Noi cristiani crediamo che Il lavoro non blocchi l’uomo in una condizione di miserabile inferiorità, come avveniva nel mondo greco antico, dove il lavoro manuale veniva disprezzato e lasciato agli schiavi e alle schiave. Se la Bibbia non esita ad attribuire a Dio il volto dell’agricoltore, del vasaio, del pastore, non è esagerato affermare che lavorare, anche manualmente, è da considerarsi verbo divino, o per lo meno, divino-umano, dal momento che anche “Gesù ha lavorato con mani d’uomo” (GS 22).

Noi cristiani crediamo che il lavoro – secondo la Genesi – sia stato affidato all’uomo e alla donna per “soggiogare la terra e dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo”, ma per la Parola di Dio dominare non è schiavizzare, e soggiogare non è saccheggiare.

Noi cristiani crediamo che il lavoro, dopo il peccato delle origini, rimanga una realtà ambivalente. E’ dono, ma anche fatica. E’ benedizione, ma può tramutarsi anche in tentazione, se non si permette al lavoratore di restare soggetto libero, sempre signore e mai schiavo, uomo integralmente umano e mai ridotto a forza-lavoro.

Noi cristiani crediamo che non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere. Persona e lavoro sono due parole che o insieme stanno o insieme cadono. Perché il lavoro senza la persona finisce per diventare disumano e smarrisce se stesso. E la persona senza lavoro rimane solo un individuo non sbocciato e pienamente fiorito.

Noi cristiani crediamo che non lavoriamo (solo) per fare soldi, ma per vivere una vita degna di questo nome. Il lavoro è umano quando non è dominato dall’ansia di produrre, dalla smania del profitto e dall’avidità di possedere, che accecano il cuore e portano a sfruttare i più deboli.

Noi cristiani crediamo che il lavoro debba essere libero, dove siano bandite tutte le forme di schiavitù, di illegalità e di sfruttamento. E dove ogni persona sia messa nelle condizioni di poter dare il meglio di sé senza essere schiacciata dalla burocrazia e dalle procedure.

Noi cristiani crediamo che il lavoro debba essere creativo. Occasione per permettere a ciascuno di esprimere la propria umanità, dentro una idea di innovazione che non è riducibile al solo aspetto produttivo.

Noi cristiani crediamo che il lavoro debba essere partecipativo, nella consapevolezza che non c’è economia che possa prescindere dal contributo della persona umana.

Noi cristiani crediamo che il lavoro debba essere solidale, senza mai dimenticare che relazioni di reciproco riconoscimento e di alleanza tra soggetti diversi sono alla base di ogni vero sviluppo.

“La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo san Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!” (Francesco, Patris Corde, 6).

Domani incomincia il mese di maggio che quest’anno papa Francesco ci chiede di dedicare a santa Maria per affidare il mondo alla sua intercessione e implorare la fine della pandemia. Pregare per questa grazia significa chiedere a Dio nostro Padre tutte le grazie che ci occorrono per far terminare questo flagello: la conversione dall’egoismo individuale e collettivo; la fede-fiducia che Dio Padre non ci abbandona mai, e meno che mai quando siamo nella prova; la convinzione che solo insieme ce la possiamo fare; l’impegno a custodire la terra e ad eliminare costruzione e commercio delle armi.

Rimini, Villaggio 1° maggio, 30 aprile 2021

+ Francesco Lambiasi