Tutti amati fino all’estremo

La Croce: evento, mistero, messaggio

Omelia tenuta dal Vescovo nel corso dell’azione liturgica del Venerdì Santo

           Soffermiamoci qualche istante, fratelli e sorelle, per ascoltare l’invito che il Crocifisso ci rivolge dall’alto del patibolo: “O voi che passate per via, alzate lo sguardo e vedete se c’è un dolore grande come il mio” (Lam 1,12).

1. La Croce è un evento, un mistero, un messaggio. E’ innanzitutto un evento. Non è la bandiera di una ideologia dolorista; non è il simbolo di una rivoluzione sociale o politica; non è il distintivo di una setta esagitata o di una nicchia ristretta e faziosa; non è neppure la semplice cifra di una vita interamente e gratuitamente spesa nel totale dono di sé. La croce di Gesù è un avvenimento storico, reale e singolare, certo e documentabile: “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato”, un avvenimento di cui ci parlano anche storici ebrei, come Giuseppe Flavio, e romani, come Cornelio Tacito.
La tentazione di “svuotare la parola della croce” (1Cor 1,17) è sempre in agguato. La morte in croce di Gesù è un fatto totalmente indubitabile perché totalmente ininventabile. Lo ha capito bene san Paolo, che definisce la Croce “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Per i giudei la Croce contraddice l’immagine di Dio, il quale coerentemente con la sua natura onnipotente – appunto, divina! – non potrebbe che manifestarsi nei segni della potenza, cioè mediante gesti sfolgoranti, risolutori, definitivi. E’ questo lo schema normale, comunemente condiviso dall’attesa giudaica della venuta di Dio nella storia: tutto l’opposto della debolezza della Croce.
Ma la Croce cozzava anche contro la visione religiosa e culturale dell’antichità nel suo complesso. Se per il giudeo la Croce rappresenta uno scandalo, un ostacolo insormontabile perché diametralmente opposta allo stile di Dio di cui parlano le Scritture, per il greco la Croce è stupidità totale e totale idiozia, un assurdo al quadrato. Che un Dio diventi un uomo assumendone il divenire, i bisogni e i limiti, è per il greco una follia al cento per cento. Ma è follia ancora più folle che un Dio finisca sconfitto sulla Croce. Un Dio che appare “capovolto”: non l’uomo che si svena per lui, ma lui per l’uomo. Una storia così spaventosa e raccapricciante nessuno, davvero nessuno! se la poteva neanche lontanamente immaginare.
Di questo evento prendiamo la scena madre, quella dell’agonia al Getsemani. Qui ci viene svelata la passione interiore di Gesù. Mentre gli altri brani ci raccontano che cosa Gesù subisce, che cosa gli fanno, qui ci viene narrato che cosa Gesù prova nell’intimo insondabile del suo cuore. I vangeli sono sempre molto sobri nel rivelarci il mondo interiore di Gesù. Le poche volte in cui lo fanno meritano molta attenzione. Questo è uno di quei momenti.
Per Gesù la passione non è solo crocifissione e morte; è il fallimento della sua missione, una missione drammaticamente spezzata: non solo incompiuta, ma miseramente fallita in un crack tragico e spaventoso. Si intuisce allora perché Gesù “cominciò a sentire paura e angoscia”. Intanto il verbo “cominciare” vuol dire che questi sentimenti non sono roba di un minuto: durano a lungo, fino all’ultimo respiro. I due termini “paura e angoscia” sono sconcertanti: un Gesù così non si era mai visto. La “paura” indica il momento in cui si è sotto shock e si rimane impietriti, completamente paralizzati. L’angoscia traduce un termine che dice di per sé “spaesamento”, come se Gesù di fronte al misterioso disegno di Dio si sentisse disorientato, “spiazzato”. La compagnia dei tre discepoli – Pietro, Giacomo e Giovanni – allude alla scena della Trasfigurazione, ma ora la rivelazione è capovolta rispetto a quella sull’alto monte: là si vedeva un uomo inondato dalla gloria di Dio, qui il Figlio di Dio appare in tutta la nudità e la misera solitudine della sua umanità.
Ma ciò che si specchia nell’anima desolata di Gesù è soprattutto la sua preghiera: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. E’ una preghiera semplice e intensa, dalla struttura classica: c’è l’invocazione del Padre, poi una professione di fede (tutto è possibile a te), poi una domanda (allontana da me questo calice) e poi da ultimo, la consegna, la resa, l’abbandono e l’obbedienza (non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu). Da evidenziare l’invocazione Abbà (Papà, Babbo caro), un modo infantile di chiamare il Padre. Proprio nel momento in cui Gesù pare inascoltato dal Padre, proprio sul punto di sperimentare il suo abbandono, lo chiama “Babbo”, un nome tenerissimo che lascia trapelare la sua incrollabile fiducia nell’amore del Padre e la sua ferma volontà di abbandonarsi a lui, qualunque cosa capiti, anche l’evento terribile e catastrofico della crocifissione. Proprio come dirà prima di morire: “Padre, nelle tue mani affido la mia vita”.
Ben diverso l’atteggiamento di Socrate, che va impavido e imperturbabile incontro alla morte. Racconta Platone che mentre veniva preparata la cicuta, il maestro stava imparando a suonare un’aria sul flauto. “A che cosa ti servirà?”, gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire”, fu la risposta. Per la sapienza greca  il confronto è a tutto vantaggio di Socrate. Il modo in cui Gesù è morto è un insuperabile scandalo, indegno non solo di un figlio di Dio, ma anche semplicemente di un uomo saggio. Detto da un credente può sembrare paradossale: l’ideale è Socrate, non Gesù.
Tuttavia il mio Dio è Gesù. Socrate è l’eroe, è l’eccezione, non ogni uomo.
Gesù invece nel Getsemani è ogni uomo. Socrate muore come vorremmo    morire;
Gesù muore come veramente si muore” (Maggioni).

2. Ora passiamo dal piano dell’evento o della storia – “Cristo è morto” – per salire al piano del mistero o del significato dell’evento: : “per i nostri peccati”, “per la nostra giustificazione”. Ecco il mistero pasquale. Cristo non è morto per un incidente fortuito, non è morto per una tragica fatalità. E’ morto perché si è offerto liberamente alla sua passione, ed è morto per i nostri peccati. “Erano le nostre colpe che sopportava… il castigo che ci ridona la pace è su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sbandati come pecore, ognuno perso per la sua strada” (Is 53,4-5). Non ha pensato a salvare se stesso; non ha cercato di scendere dalla croce. Non ha salvato se stesso per salvare tutti noi.
Ma per penetrare almeno un po’ più a fondo nella verità – nel mistero! – di queste affermazioni, facciamoci aiutare dal nostro santo Padre Benedetto XVI:
“Nella passione di Gesù, tutto lo sporco del mondo viene a contatto con
l’immensamente Puro, con l’anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito
la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario:
dove il mondo, con tutta la sua ingiustizia  e con le   sue crudeltà che lo inquinano, viene a
contatto con l’immensamente Puro – là Egli, il Puro, si rivela al contempo il più forte. In questo
contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il
dolore dell’amore infinito. Siccome nell’uomo Gesù è presente il bene infinito, è ora presente ed
efficace nella storia del mondo la forza antagonista di ogni forma di male, il bene è sempre
infinitamente più grande di tutta la massa del male, per quanto essa sia terribile”.

Ecco dunque in che senso possiamo parlare di sacrificio di espiazione dei nostri peccati, da parte di Gesù. Non nel senso che da un Dio crudele venga chiesta al Figlio una espiazione infinita per potersi riconciliare con noi, ma è proprio il contrario: è il Padre che ci fa dono del Figlio, e il Figlio si è veramente donato (“abbandonato”) a noi peccatori “mentre eravamo peccatori” (Gesù si è fatto nostro cibo!) e noi gli abbiamo addossato tutti i nostri peccati. E’ l’intero genere umano con tutta la massa delle sue innumerevoli colpe a pesare, come una enorme piramide rovesciata, sulle spalle del Figlio. Ed è il Figlio che con tutta questa “maledizione” sta davanti al Padre e chiede perdono per noi peccatori: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. E’ il Figlio che “fa suoi” questi peccati, come se proprio li avesse commessi lui, e perciò sperimenta fino in fondo la nostra “perdita del Padre”. E’ contemporaneamente il Figlio che, dall’abisso di peccato in cui si è calato per amorosa obbedienza al Padre, che abbandona nelle mani del Padre la sua vita, e così trasforma il grande No del nostro peccato nel Sì più grande della sua obbedienza al Padre.

Da qui scaturisce un solo messaggio: l’amore. Guardando il Crocifisso che muore per noi, possiamo capire il senso delle parole di Paolo: “Ci ha amati e ha dato se stesso per noi”. Per noi, perciò significa non solo “per colpa nostra”, ma anche “per amore nostro”. E poiché Gesù ci ha amati non solo in senso collettivo, ma in senso distributivo – ossia ha amato ognuno di noi, personalmente, singolarmente, irripetibilmente, allora possiamo passare dal “per noi” al “per me”. Come afferma lo stesso Paolo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Nel testo della lettera ai Corinti, Paolo specifica chi è questo “me”: uno che l’ha perseguitato (1Cor 15,9); uno che l’ha odiato. Ma chi di noi qui presenti non ha la sua storia di miseria da non dover dire “per me”? Una storia fatta di tradimenti, di ostilità, di compromessi, di indifferenze. Eppure il Crocifisso ha amato proprio me e ha dato se stesso anche per me.
Lasciamoci allora trafiggere dalle parole dette da Gesù a un grande mistico: “Io ho pensato a te durante la mia agonia, per te ho versato quelle gocce di sangue. Vuoi dunque che mi costi sempre il sangue della mia umanità senza che tu dia delle lacrime”?

Rimini; Basilica Cattedrale, 6 aprile 2012