No alla guerra, Sì alla pace

Sempre, dovunque, comunque
Omelia del Vescovo nel corso della Veglia diocesana per la pace

“Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. Ci rendiamo conto, fratelli, sorelle, amici, che questa non è “la morale dei deboli che nega la gioia di vivere” (Nietzsche)? Io penso di sì. Non credo che noi siamo tentati di pensare che la morale propostaci da Gesù sia cosa da cuori codardi, da animelle deboli e vili, da pavide pecorelle, raggelate dall’ululato di lupi feroci o dal ruggito di leoni rapaci. No, noi siamo piuttosto tentati su un altro versante, e le obiezioni a cui siamo esposti sono precisamente due: non è forse quella proposta da Gesù una morale talmente sovrumana da risultare per noi praticamente impossibile? E comunque – seconda obiezione – quella non violenta è una risposta davvero efficace e risolutiva? L’amore è effettivamente capace di disarmare il male?

1. Prima di imbastire una breve risposta a queste due domande, vorrei assicurare una premessa, che mi sembra imprescindibile.
    La proposta di Gesù di porgere l’altra guancia, di lasciare anche il mantello a chi ci vuol togliere la tunica, di fare un doppio miglio di strada a chi ne pretende da noi uno solo, è una proposta tanto sconcertante e paradossale, quanto del tutto originale. Mai prima di Gesù, mai dopo di lui, al di fuori della fede cristiana, si è sentito un insegnamento del genere, declinato con un esempio estremamente coerente, come quello datoci dal Maestro di Nazaret. Ha scritto il celebre rabbino americano Jacob Neusner: “Se io fossi stato là quel giorno (quando Gesù tenne il discorso della montagna) io non mi sarei unito ai suoi discepoli per seguire il Maestro nel suo cammino; sarei tornato indietro alla mia famiglia, al mio villaggio (riprendendo ad osservare la legge di Mosè)”.
    E’ vero: Mosè, in nome di Dio, aveva fondato un diritto che rappresentava una considerevole umanizzazione dei rapporti sociali. La “legge del taglione” tentava di innalzare una diga alla vendetta privata, impersonata da Lamech nella Genesi: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido”. La norma “occhio per occhio, dente per dente” cercava di stabilire una sorta di equo compenso tra il male ricevuto e quello ricambiato.  
    Gesù non esita a mettere in discussione il sistema mosaico: non basta regolare il male, bilanciando torti e risarcimenti, e annuncia l’incredibile ideale della giustizia evangelica: amare non con una “giusta misura” umana, ma a dismisura, con la misura di Dio e alla sua maniera. Ecco l’efficacia della proposta di Gesù: se è vero che la violenza scatena violenza come una catena infinita, solo l’amore riesce a disinnescare la spirale della vendetta, a scombinare le ferree regole dell’odio e ad escogitare reazioni nuove, a generare relazioni improntate a un ordine veramente umano, in base a due principi limpidi e decisivi. Il primo: “ogni uomo è mio fratello” e dunque metti amore dove c’è odio, semina il perdono dove ti aspetti vendetta, e così potrai cancellare tu, dentro di te, il concetto stesso di nemico. Solo allora potrai concretamente sperare di disarmare il nemico che è fuori di te. E poi c’è un secondo principio generatore: “l’uomo non è il suo sbaglio” (Don Benzi). Guarda tu per primo il tuo nemico con occhi di fratello, e un cuore di fratello riprenderà a pulsare dentro di lui. Così fa Dio. “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Ormai la norma non è più: “Quello che l’altro ha fatto a te, tu fallo a lui”, ma: “Quello che Dio ha fatto a te, tu fallo agli altri”.

2. Già, ma come fa Gesù a chiedere a noi, gente povera e fragile, fatta di carne ed ossa, una morale così alta ed esigente da essere né più né meno che una morale “da Dio”? Ritorniamo così alla prima obiezione. A questa, noi cristiani rischiamo di dare risposte scontate, e invece dobbiamo renderci conto che un’etica ispirata ai principi della sola ragione potrà certo arrivare a parlare di riconciliazione con il nemico e, pur affermando il diritto all’autodifesa, potrà giungere anche a prescrivere la rinuncia alla vendetta. Ma unicamente su base razionale non si arriverà mai a stabilire, come legge morale valida per tutti, l’amore al nemico quando è tuttora nemico. E però Dio può chiedere questo a noi, che – non per nostro merito, ma solo per grazia – siamo il popolo della nuova ed eterna alleanza, proprio perché siamo suoi alleati e siamo costituiti “avanguardia profetica”, sale della terra e luce del mondo. Dio vuole far giungere il dono della sua pace a tutti i popoli e per questo – per guarire il mondo dal circolo vizioso della violenza, che nella vendetta prolunga la distruttività dell’offesa – Gesù chiede a noi di amare i nostri nemici e di pregare per quelli che ci perseguitano. Noi, indegni discepoli di Gesù, siamo stati chiamati per grazia a manifestare al mondo quali siano i sentimenti di Dio riguardo al suo progetto di pace e di salvezza dell’umanità. Si tratta di un impegno nei confronti di Dio, ma anche di una responsabilità nei riguardi del mondo.
    Questa è la morale di Dio, che non viene imposta a noi per legge, ma viene offerta a noi per dono. Non è moralismo, ma grazia. Dio ci chiede di fare quello che lui stesso, per primo, ci dona di fare. Senza mai dimenticare che è precisamente con la sua grazia che il Signore “ci dona di fare ciò che possiamo e di chiedere ciò che non possiamo” (Concilio di Trento).

3. Ma, concretamente, cosa possiamo fare noi per la pace?
    Possiamo digiunare e pregare. Lasciarsi mordere dalla fame non è come fare uno sciopero della fame o intraprendere una cura dimagrante. Al contrario, significa liberarsi da ogni idea mercantile nei confronti di Dio e dei fratelli, e quindi manifestare con il digiuno corporale la propria fame di Dio, la propria apertura radicale a lui, l’unico Signore, dal quale solamente si attende tutto, a cominciare dal dono del perdono e dell’amore per i nemici, per condividere con loro il pane della riconciliazione e della pace. Digiunare significa anche lottare contro la fame nel mondo: “Dona, Signore pane a chi ha fame, e fame a noi che abbiamo pane, a noi sazi e ricchi di beni e poveri di bene”.
    Possiamo digiunare e pregare per operare e promuovere una cultura della pace. Ecco una sorta di grammatica della pace che noi qui presenti ci impegniamo da questa sera a declinare con più convinzione e determinazione.
    Primo, “la guerra chiama guerra, la violenza chiama violenza”. La guerra è un crimine gravissimo contro l’umanità: per i danni che provoca e per la perdita di vite umane che procura. La guerra è sempre assurda, folle e ingiusta. E’ il mezzo più barbaro e più inefficace per risolvere i conflitti fra due o più Paesi.
    Secondo, la guerra è inaccettabile per il continuo, incombente pericolo di trasformarsi da regionale in mondiale e da convenzionale in nucleare.
    Terzo, la guerra oggi non è più praticabile per le immense risorse che gli armamenti ingoiano, sottraendole al doveroso aiuto per lo sviluppo dei popoli poveri. La guerra è segno di viltà, non di civiltà.
    Quarto, la guerra come legittima difesa oggi non è più sostenibile perché, anche secondo l’insegnamento morale tradizionale, i danni devono essere minori del bene che si consegue: il che oggi non si verifica più.
    Quinto, la corsa agli armamenti, l’accumulo e il commercio delle armi non solo non assicurano la pace con la colpevole illusione della deterrenza, ma anzi, lungi dal rimuovere le cause dalla guerra, le aggravano criminalmente e tragicamente.
    Sesto, la pace comincia da me, da te, tra di noi, a livello interpersonale, in famiglia, a scuola, nel lavoro, nella vita civile, sociale, politica. Ognuno di noi può spegnere qualche focolaio di violenza, di odio, di conflitto dentro e attorno a sé. Ognuno di noi può lenire qualche ferita dentro e attorno a sé con quel balsamo della tenerezza che è il perdono.
    Settimo, la costruzione della pace è un’arte. Vanno sostenuti, con la preghiera e il sostegno morale i “profeti disarmati”, che anche in Siria oggi provano a trovare soluzioni pacifiche al conflitto.
    Ottavo, occorre sempre ricordare che “niente è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra”.
    Sorelle, Fratelli, è con questo spirito che fra poco, dopo una congrua pausa di silenzio per decidere nel nostro cuore un preciso e concreto gesto di perdono – da chiedere o da dare – e per definire una offerta in denaro che potremo raccogliere al termine della Veglia per la Caritas nazionale della Siria, vi inviterò a scambiarci sinceramente e fraternamente il dono della pace.

Rimini, Basilica Cattedrale, 7 settembre 2013

+ Francesco Lambiasi
    

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